Tariffe cellulari, quale sorte per la tassa di concessione governativa?

Dopo una battaglia a colpi di normative la Cassazione si pronuncia sulla tassa sugli abbonamenti di telefonia mobile.

Tariffe cellulari, quale sorte per la tassa di concessione governativa?

L'argomento di cui oggi trattiamo riprende quello già a molti noto, ovvero la legittimità della tassa di concessione governativa che paghiamo per le utenze telefoniche per cellulari in abbonamento.

Ebbene, dopo una lunga diatriba nata tra le associazioni dei consumatori e le aziende di telefonia, in cui le prime hanno sempre ritenuto indebita l'applicazione della stessa tassa a carico degli abbonati, sulla base dell'assunto che la stessa era stata ormai superata dalla attuale disciplina di privatizzazione delle bande, si è finalmente pronunciata sull'argomento la Suprema Corte di Cassazione, la quale ha definitivamente soppresso le speranze di rimborso degli enti locali ma anche, e soprattutto, dei privati cittadini.

Infatti, almeno per il momento, nonostante quello della telefonia sia oggi un mercato privatizzato e liberalizzato, l'attività di fornitura dei servizi di comunicazione resta subordinata «a un regime autorizzatorio da parte della p.a.

I titolari dei contratti in abbonamento, quindi, devono continuare a pagare la tassa di concessione governativa (Tcg), pari a 12,91 euro mensili per le utenze business e a 5,16 euro per i clienti privati. Ad affermarlo è, appunto, la Suprema Corte con la sentenza n. 23052 del 14 dicembre 2012.

Una pronuncia attesa da mesi e che ribalta l'orientamento dominante della giurisprudenza tributaria di merito. Da quando nel 2009 decine di comuni del Nordest hanno chiesto all'Agenzia delle entrate i rimborsi della Tcg versata, infatti, in oltre 180 casi Ctp e Ctr hanno dato ragione agli enti locali.

I verdetti pro-contribuenti sono stati circa il 95% del totale. Tutto ruota intorno all'abrogazione implicita dell'articolo 21 della tariffa allegata al dpr n. 641/1972, che indica tra gli atti soggetti alla concessione governativa «la licenza o documento sostitutivo per l'impiego di apparecchiature territoriali per il servizio radiomobile pubblico terrestre di comunicazione». Secondo i comuni, il dlgs n. 259/2003 ha liberalizzato il mercato, sostituendo il regime di concessione con quello concorrenziale.

Si è passati, cioè, da un atto amministrativo tipico del diritto pubblico, in cui la p.a. esprime una posizione di superiorità rispetto all'operatore, al contratto privato tra cliente e società telefonica, che presuppone una situazione di parità tra le parti. Senza quindi dover pagare più nulla all'erario.

Tesi che però non trova concorde la Cassazione. Nonostante la privatizzazione, infatti, la fornitura di servizi di comunicazione elettronica resta «soggetta a un'autorizzazione generale, che consegue alla presentazione della dichiarazione, resa dall'interessato, di voler iniziare la fornitura e costituente denuncia di inizio attività».

La vecchia licenza di stazione radio è rimpiazzata dal contratto di abbonamento, mantenendo quindi in vita il presupposto impositivo della Tcg. Da qui la bocciatura della sentenza n. 35/04/11 della Ctr Veneto e, con decisione nel merito, la validazione dell'operato dell'ufficio delle Entrate, che aveva respinto la richiesta di rimborso dei quattro comuni interessati dal giudizio.

Un orientamento che, se confermato, potrebbe portare all'annullamento di decine e decine di sentenze di merito, in una vicenda che complessivamente vale per l'erario circa 2,4 miliardi di euro. Sia le Entrate sia il Mef hanno sempre mantenuto una posizione rigida sull'argomento, nonostante le sconfitte in commissione tributaria. Ora il fisco incassa anche la conferma dei giudici di legittimità.


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